Cinema Teatro F.lli Vacchetti

Ex Cappella di S. Giuseppe

L’erezione della cappella in onore di S. Giuseppe risale al 1630, nel qual anno la comunità di Carrù, per scongiurare la peste, che inferiva nei paesi limitrofi, si votò ai santi Giuseppe, Sebastiano, Rocco, Bernardo, Martino. Ad onore dell’augusto Patriarca si edificò un’ampia chiesa, che si chiamò pure delle Umiliate, per la congregazione ivi raccolta di pie consorelle a festeggiare santa Elisabetta, regina d’Ungheria. Questa chiesa nel 1800 dal governo francese fu destinata a magazzino per il fieno e per la paglia, e nel 1861 fu dalla comunità occupata per deposito militare.

Da allora si cessò di ufficiarla, essendosi ridotta la chiesa a magazzino prima e a teatro comunale poi. FILIPPO (Pippo) VACCHETTI (Carrù, 27 maggio 1873 – Torino, 8 luglio 1945) NATURE “MORTE”, MA BEN VIVE Tutti artisti, nella famiglia Vacchetti: chi suonava, chi dipingeva, chi componeva, chi faceva l’una e l’altra cosa, e nella sua serenità riusciva a fare di ogni giorno della sua vita un piccolo capolavoro di spirito, intelligenza, creatività, subito comunicato all’intorno in modo contagioso. Il padre suonava l’organo nella chiesa parrocchiale, ed aveva composto Messe, lodi, ma anche ballabili. Pippo ne derivò buone disposizioni per il canto e una vera passione per lo spettacolo, tanto che da piccolo attuò egli pure, come Carlo Goldoni, una sua breve fuga con una compagnia di saltimbanchi. Emilio suonava la chitarra, Ignazio il violino con una “cavata educatissima, soave, con morbidezza di tinte e sapiente uso dell’archetto”. A 11 anni Pippo entrò garzone in una pasticceria; a 18 cercò, come pasticcere, cercò una sistemazione a Genova.

Non trovandola (erano anni duri, in cui mancava il pane, altro che le paste!) si decise per la ferma militare da volontario.
Per cinque anni passò da una caserma all’altra del cuneese fra Bra e Ceva. Come raggiunse il grado di sergente lo sorteggiarono per le truppe di rinforzo all’esercito coloniale che le stava buscando in Africa; ma non fece in tempo a raggiungere il fronte: Adua aveva posto fine, per allora, alle italiche presunzioni. Approfittando dei tempi morti durante il servizio militare, Pippo si fece, volonterosamente, una sua piccola cultura di autodidatta. Lesse parecchio, si applicò a chitarra e mandolino, guardò con un occhio acuto alla vita di caserma, e poi tradusse quelle impressioni in monologhi spassosi. Riusciva bene in tante cose – musica, recitazione, canto, disegno – e non sapeva quale via prendere; ognuna gli pareva una rinuncia. Il fratello maggiore, Ignazio, aveva la testa sul collo, gli scrisse allora con brusca affettuosità che doveva decidersi, se non voleva sprecarsi suoi talenti. Tornato da soldato che sembrava davvero il “Bastian dla Cassinòta” del “Marito ‘d Luisa”, lo spassoso vaudeville scritto dal suo compaesano Celestino Calleri trent’anni prima, Pippo trovò a Carrù un mecenate intelligente, disposto ad aiutarlo negli studi. Il comm. Reyneri gli assicurò infatti uno scudo al mese, e con quelli egli potè iscriversi all’Accademia Albertina e frequentarla dai 23 ai trent’anni. Allievo di Giacomo Grosso, Gaidano, Marchisio, Pier Celestino Gilardi, Tavernier, ebbe come compagno di studi e di vita bohémienne il geniale ed inquieto Matteo Olivero. Abitava, come tanti altri studenti e giovani artisti, una soffitta di piazza Carlina; lì lo raggiunsero prima il fratello Emilio, che aveva sette anni meno di lui e aveva terminato le scuole tecniche, e poi Sandro, ch’era dell’89 e portava ancora le brache corte. C’era con loro Luigi Borra, un altro giovane compaesano che aveva mansioni di cuoco e di faccendiere di casa, e intanto si esercitava egli pure con i colori e con la musica. Giacomo Grosso sviluppò in tutti loro gusto e abilità tecnica, ne fece dei capaci ritrattisti, ma sviluppò in Pippo una particolare propensione per la natura morta, e l’aiutò a chiarirla. Uscito dall’Albertina, cominciò a dipingere in proprio, acconciandosi anche a ricostruire ritratti dalle fotografie ad a fare opere di decorazione (per esempio partecipò alla decorazione del Santuario dei Ronchi, nel 1909): Nel 1910 esordì alla Promotrice Torinese, e da allora fu presente a un gran numero di mostre torinesi, alle Quadriennali, a collettive organizzate a Genova, Milano e Roma: una partecipazione senza clamori, ma confortata da un buon successo, dovuto alla qualità della sua pittura, apparentemente dimessa eppure ricca di verità, di echi profondi e cordiali. L’attenzione dei critici e, più, dei collezionisti, cominciò a consentirgli di vivere, parcamente, del suo lavoro, anche se non mancarono momenti di difficoltà. Dipingeva paesaggi e figure, e intanto, ubbidendo a Grosso, si andava perfezionando nella natura morta.

A quarant’anni quando si sposò, mise testa a partito. Cambiò di colpo; si impose un rigido programma di vita, divenne casalingo, e la natura morta era il genere più a portata di mano. Teneva d’occhio un grande orologio Ruskoff e lavorava secondo un preciso orario, mattino e pomeriggio. D’estate tornava a Carrù: il mondo in cui si riconosceva di più, schietto e genuino. Il lavoro di litografo, le leziosaggini della Lenci, le regole della produzione in serie cui anche i suoi fratelli lo invitavano, non lo catturarono: ne rifuggì allarmato, rivendicando il diritto ad una ispirazione più sua e più libera.

UNA PITTURA RICCA DI UMORI Divenne il cantore appassionato e geloso di un mondo semplice, contadinesco, cogliendone lo spirito autentico nelle cose meno appariscenti ma forse più significative, nei frutti della terra che recano l’impronta di un duro lavoro, negli oggetti che testimoniano la genialità e lo spirito di adattamento della gente e che richiamano i valori di una sana tradizione oppure ritraendo con acume di psicologo volti duri e umanissimi di contadini langaroli. Ne scaturì una pittura di immediata suggestione, lirica e commossa, dove Pippo esprimeva la sua predilezione per la concretezza della vita, e dove ogni pennellata, ogni effetto ricco di colore, di umori, di divertito spirito di osservazione erano il riflesso di un’adesione totale a ciò che lo circondava, comprese le rinunce e le fatiche ad esso inerenti. Se non dipingeva più nei prati come Emilio, si concedeva soggiorni in montagna, presso Sartori, suo ex compagno dell’Accademia, che lo invitava a Varallo Sesia, dove poi teneva una mostra dei dipinti appena realizzati. E più volte si recava a Roma, su invito di Fesola, ch’era proprietario della Zizzola di Bra: una persona influente che lo presentò a ministri e uomini di cultura. Fesola fu un po’ il suo mecenate. Presso di lui conobbe Alesina: un’amicizia che si rinsaldò quando Alesina, sfollato a Carrù per la II guerra, non si volle più distaccare da quell’ambiente, e ne divenne uno degli animatori, insieme al dott. Costa, Dadone, Ghio. Furono anni molto difficili, in cui la sua bonaria filosofia fu messa a dura prova, ma ne uscì vincente. Per poco, purtroppo, ché egli mancò poco dopo la liberazione, l’8 luglio 1945. Fu, il suo, un trapasso sereno e lucido, accompagnato fino all’ultimo da battute irresistibili, che costringevano a ridere fra lacrime. “E’ morto come gli antichi filosofi cinesi”, disse ai suoi funerali il dott. Costa. A suo figlio non lasciò solo in eredità una scarpa vecchia, un portafoglio vuoto, una pipa spenta, una tavolozza abbandonata, quali egli ritrasse in un bozzetto famoso, ma un insegnamento di vita, una lezione di umiltà e di coerenza stilistica ed umana che conservarono validità e incanto nonostante l’accavallarsi delle mode e la frenesia di questi tempi inquieti: per suo figlio, e per tutti noi.

EMILIO VACCHETTI (Carrù, 1880 – 1964)
FIORI CHE NON APPASSISCONO Se Pippo ricercava la verità profonda delle cose con sguardo sorridente di filosofo comprensivo, Emilio le amava nei loro colori, nei loro semplici incanti. Aveva scoperto prestissimo la sua vocazione, trascinato dall’entusiasmo del fratello. Dotati di volontà di riuscire, di una buona dose di spirito di adattamento e di giovanile gusto di avventura, i Vacchetti si trasferirono anella Torino di fine secolo (li raggiunse presto anche Sandro), entrando a contatto con i vivaci personaggi che popolavano gli ambienti artistici d’allora, e conducendo un’allegra via Bohéme. Le poche risorse andavano per la pensione, e ben poco restava per i vestiti e por i divertimenti. Emilio si distingueva per i suoi abiti dismessi, troppo larghi per la sua magrezza di adolescente, e per il suo candido comportamento di provinciale.

 Matteo Olivero gli affidò un soprannome che gli stava a pennello: “Baròt”; ed Emilio ne andò sempre fiero. Per pagarsi lezioni di pittura, Emilio cominciò a lavorare come litografo presso Salussolia, poi da Doyen; si specializzò in cromolitografia facendo immagini, etichette, manifesti in un temperato stile floreale; intanto frequentava la scuola di figura sotto la guardia di Gaidano e di Giacomo Grosso.
 Lo attrasse anche la caricatura, che richiede abilità, rapidità di tratto, spirito ed arguzia: tutte doti che non gli facevano difetto. Collaborò al “Pasquino” e al “Numero”, giornali umoristici torinesi di cui era animatore Golia. Col fratello Sandro eseguì in una decina d’anni un gran numero di cartelloni pubblicitari per la nascente Decima Musa (il cinema italiano, si sa, ebbe la sua culla in Torino).

IIL PIACERE DI DIPINGERE Tornato nel ’18 dal fronte, Emilio continuò a lavorare come litografo e come pittore, dedicandosi soprattutto ad una serie di “interni”, quadretti che in piccolo spazio condensavano tanta umile poesia. Per molti anni, insieme a Sandro tornato dall’America, e con la sorella Lina, Emilio lavorò alla “Lenci” di Torino, dove fu capo del reparto pittori di ceramica, e dove conobbe la buona Susy Sontag, che doveva diventare sua moglie. Lì orientò il suo gusto verso le delicate, gentili, coloritissime composizioni di fiori in cui oltre nei paesaggi prediletti in gioventù e nei vividi ritratti, espresse il suo temperamento sensibile e cordiale. I fiori di giardino e di campo divennero la sua cifra inconfondibile specie da quando tornò definitivamente nella natia Carrù. Qui l’atmosfera, l’aperto paesaggio, la gente, tutto gli piaceva; e in Carrù egli diede il meglio di sé. Si dedicò con sempre maggior approfondimento al genere umile eppure immenso della pittura di fiori, raggiungendo raffinatissimi risultati tecnici e poetici. La sua fama di pittore dei fiori si venne consolidando. Di buon mattino andava nei prati a raccogliere margherite e ranuncoli ancora imperlati di rugiada, li disponeva in un bicchiere, in cucina o sul “trassòt”, un aereo balcone in faccia alla “Langa vinatera”; il sole ricavava riflessi e sfumature sempre nuove, e gli dettava le tonalità e le pennellate più armoniose. Con il fratello Pippo, fertilissimo di trovate, non tralasciava occasione per animare le giornate carrucesi in uno spirito di schietta allegria. Memorabili le recite; più memorabili le baldorie e le serenate. “Baròt” invitava Ghio, Alesina, Dadone, Cocco, Borra nella sua cantina pomposamente battezzata “l’Osto dij Tre Re”. “A l’è lì girà ‘i canton / drè dla gesia dij Batù / lì cimpoma ‘l vin pì bon / con la squela e col cassù…”: così l’aveva immortalata Cocco.

 Pippo portava giù il gorgonzola che gli era servito da modello per l’ultima natura morta, ed i tappi saltavano. Poi “Baròt” afferrava la chitarra e dava inizio al certe canzoni “barbaresche”, ed ogni ragazza e madamina di Carrù si faceva alla finestra per ricevere l’omaggio di un ritornello che ricambiava on un fiore. Emilio si chinava, lo raccoglieva, ed il mattino dopo lo dipingeva sulla tela altrettanto fresco e profumato. Assecondando il ritmo delle stagioni con la pittura a volta a volta di primule, viole, narcisi, margherite, rose e grisantemi, esponendo con sobrietà ma sempre con buon successo, Emilio Vacchetti, sempre lavorando con pazienza, convinzione, umiltà, fino alla soglia degli ottantacinque anni: serenità e fiducia, nonostante la sua attività di pittore non gli consentisse che modesti e saltuari guadagni. E, quel che più importava, migliorò sempre: passando da una resa quasi fotografica della realtà a magiche sinfonie di colori, evocazioni di forme e colori di grande sapienza e suggestione, di gusto lirico e non più naturalistico. “La gent a dis che pituré l’è pà un travai – mi confidò un giorno. – A l’ha rason: l’è pà un travai, a l’è un piasì. E mi quand ch’a peuss pituré ringrassio il Cel”. Morì negli ultimi giorni del ’64 lasciando in studio disegni e opere di notevole significato e freschezza, che andrebbero salvate, se ancora si è in tempo, dalla dispersione.

SANDRO VACCHETTI (Carrù, 1889 – Torino, 1974) CERAMICHE E PAESAGGI Trovò i primi stimoli e insegnamenti nell’ambiente familiare, ilare di fermenti artistici, dai fratelli Pippo ed Emilio, e dall’amico di casa Matteo Olivero. Con essi passò da Carrù a Torino, per formarsi. A Torino lavorò con il Dalmonte e il Guarlotti, impadronendosi delle tecniche della cromolitografia e dell’acquaforte. Insieme al fratello Emilio elaborò almeno duecento bozzetti per manifesti cinematografici, in cui ebbe modo d’inserire spunti di una disinvolta fantasia grafica. Turbato dalla morte improvvisa del fratello Angelo, così sensibile e promettente, Sandro – impulsivo – emigrò in America, a Boston, dove mise a frutto il suo buon mestiere di litografo, impegnandosi come disegnatore presso l’importante ditta di un tedesco.
Da Boston a New York, sempre dedicandosi a bozzetti pubblicitari e modellando statuine e soprammobili. Soprattutto certe Nudine, Eve, Veneri delle carni di porcellana, dai capelli d’oro e dall’atteggiamento tra pudico e malizioso piacquero ai Divi e alle Stelle del tempo. Riprodotte in svariati esemplari, quelle ceramiche gli diedero, se non agiatezza economica, un momento di notorie. Rimpatriò per prendere parte alla I guerra mondiale, e anche in trincea cercò di tenersi esercitato, modellando nel fango profili di compagni e, naturalmente, qualche nudina, per regalare a sé e agli altri almeno un istante di smemoratezza. COLLABORATORE ALLA LENCI Al termine del conflitto fu trattenuto dal tornare negli Stati Uniti da un’occasione offertagli da una piccola, curiosa bottega artigiana di Torino.
LaLa signora Lenci gli chiese di modellare alcune testine di corpi di bambola, ed egli li fece così graziosi che ottenne un impiego stabile per sé, e, poi, anche per il fratello Emilio. Buona parte della fortuna della “Lenci” nacque dalla collaborazione fra questi due fratelli abili e spiritosi e una donna di talento e di spiccata fantasia.
La Tencina, la Salomé, l’Olandesina, il Pappagallo, il Coniglio, furono fra le prime creazioni, e trovarono divertiti ammiratori e acquirenti anche all’estero, in Svizzera come in Inghilterra.
Il minuscolo laboratorio di via Marco Polo 5, poté espandersi rapidamente, grazie anche al perfezionamento tecnico apportato al panno dal fratello della Lenci, ing. Kӧnig. Ai Vacchetti e allo scultore Riva si aggiunsero nuovi collaboratori più o meno stabili, come Gigi Chessa, Giovanni grande, Mario Sturani, Da Milano, Deabate, Quaglino: nomi che stavano per balzare in primo piano dall’ambiente artistico torinese fra le due guerre.
Dal 1922 la Casa Lenci partecipò con crescente successo di simpatia e di vendite a mostre nazionali ed estere. Alla I mostra Internazionale di Arti Decorative a Monza, nel ’23, Sandro Vacchetti e Gigi Chessa allestirono due sale: la sala per la prima colazione e la camera delle bambole. Nel ’25 a Parigi, la Lenci – che occupava ormai 60 dipendenti – ottenne tre “Grand Prix”, sette diplomi d’Onore, sei medaglie d’oro, tre d’argento. Nel ’29 si affermarono le ceramiche Lenci: alla galleria Pesaro di Milano (con la presentazione di Ugo Ojetti) e poi sulle pagine di “The Studio”, una rivista inglese che pubblicò, tra le altre, varie statuine di Sandro: Amor paterno, Primavera, la Russa, Madonna… “Casabella”, “Domus” e altre importanti riviste italiane s’interessarono più volte al fenomeno Lenci. La casa fu poi ceduta al sig. Garella. Era il 1937, e le gentilezze di fiaba erano ormai mortificate da sussulti di guerra. Poi Sandro mise su un laboratorio tutto suo di ceramiche artistiche, e lo chiamò “Essevì”. Vi lavorava dieci ore al giorno, e anche la domenica. Esportava in mezzo mondo, ma non curò abbastanza l’aspetto commerciale e non ne ricavò certo ricchezze. Assorbito da queste diverse attività, Sandro arrivò relativamente tardi alla pittura vera e propria. Ma il contatto con tanti pittori in famiglia e fuori lo convinse a percorrere anche questa strada. Dipinse di preferenza, ad olio, paesaggi di vasti orizzonti, ambienti langhesi, apponendovi specie nell’ultimo periodo, vividi titoli in dialetto: “A spieuva”, “Aria neuva”, “’L pilon”, “La cort”,… Ma ritornò più volte sul diletto nudo femminile imprimendovi una grazia maliziosa, mai sguaiata. La pittura di Sandro Vacchetti conserva i segni della sua formazione di disegnatore e litografo nello scrupolo del disegno ben definito, nelle campiture di colore, nei toni talora sopra le righe.

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